giovedì 15 marzo 2012

elogio della bicicletta

Ho cominciato a pedalare subito dopo aver mosso i primi passi: prima sul triciclo, poi su una biciclettina minuscola dotata delle classiche rotelle  laterali di sostegno. A quattro anni, di ritorno dalle vacanze estive in cui avevo visto il figlio del padrone dell'albergo, tale Mariolino mio coetaneo, che già andava senza rotelline, chiesi ai miei genitori di toglierle e imparai a stare in equilibrio su due ruote. Da allora di strada -in questo caso non metaforicamente! -ne ho percorsa tanta: la bicicletta è stata compagna di gite con le amiche, di esplorazioni solitarie della città dove frequentavo l'università, poi di giri con i bambini trasportati nell'apposito seggiolino. Ricordo il terrore di mia madre quando mi vedeva arrivare, all'epoca della mia terza gravidanza, con il pargolo di due anni davanti, la bimba di tre anni e mezzo dietro e il pancione in mezzo; mi dava della pazza mentre io, ridendo, proclamavo che stare in quattro su una sola bici era da Guinness dei primati. Forse ero davvero un po' sventata, ma la mia lunga esperienza di ciclista mi faceva sentire molto sicura e comunque, fortunatamente, non accadde mai nulla di spiacevole.
Amo la bicicletta per un sacco di motivi. E' silenziosa: se giri per la campagna puoi ascoltare tutti i suoni della natura e quando ti muovi non assordi gli altri. Non inquina: provate a immaginare quanto più pulita sarebbe l'aria di una città se la maggior parte delle persone lasciasse a casa l'auto e si spostasse su due ruote. Obbliga a fare un po' di movimento: un'oretta di pedalata ogni giorno ti mantiene in forma a costo zero (ma pare che molti non lo capiscano e così continuano a usare i SUV anche per andare dal parrucchiere e poi si lamentano dei chili di troppo e si iscrivono alla palestra). E' economica: l'unica energia di cui ha bisogno è quella delle nostre gambe, e in un periodo in cui i prezzi del carburante stanno salendo alle stelle non è poco. E' pratica: in una città non troppo grande come quella dove abito, con un po' di buona volontà si può arrivare in bici praticamente dappertutto e potendo percorrere anche molte vie precluse alle auto, spesso si arriva prima di chi è motorizzato, e si parcheggia  davanti alla propria meta, evitando gli estenuanti giri per trovare il posto auto che poi magari è a mezzo chilometro da dove devi andare.
Naturalmente non posso ignorare qualche inconveniente come la pioggia molto forte (per quella leggera ci si arma di mantella impermeabile e via ugualmente) o l 'impossibilità di trasportare  carichi pesanti o ingombranti: in questi casi riconosco che altri mezzi sono più idonei. Purtroppo un grosso problema è il traffico  veicolare poco amico delle due ruote, e non bastano le piste ciclabili per rendere sicura la vita dei ciclisti, resa ultimamente più difficile dalla proliferazione delle rotonde dentro le quali occorre fare particolare attenzione per non finire male. Un altro guaio è che le bici sono per i ladri una preda più facile che un'auto- difatti nella mia ormai lunga carriera di pedalatrice me ne sono vista sparire non so quante- e ritrovarle, quand'anche si fosse sporta denuncia, cosa che non sempre succede, è molto più difficile. Attualmente, per scoraggiare i malintenzionati, viaggio su un pezzo da museo generosamente fornitomi da un vicino di casa quasi novantenne che ripara bici per hobby: l'estetica non è gran che, ma è dotato di due cestini, uno anteriore l'altro montato sul portapacchi dietro la sella, ottimi per portare la spesa. Con questo mezzo antiquato ma funzionale mi muovo piacevolmente per la città e quando voglio sperimentare a buon mercato l'ebbrezza del volo, percorro un lungo viale alberato che corre, un po' sopraelevato, dove un tempo c'erano le mura e poi a un certo punto prendo uno svincolo laterale in forte discesa e...giù, senza mani: l'emozione è garantita. Spero solo che una volta o l'altra i freni non mi tradiscano!
rosy

venerdì 9 marzo 2012

gatti e libri

Nella mia biblioteca ben cinque scaffali sono dedicati ai libri che, in qualche modo, parlano di gatti. Non mi sono mai presa la briga di contare quanti sono i volumi; mi riprometto ciclicamente di stenderne  un elenco ben ordinato ma finora non ho realizzato il proposito. Dimensioni, provenienza, contenuto dei libri sono quanto mai vari: si va dalle storie per bambini riccamente illustrate con uno o più mici come protagonisti ai volumi di tipo enciclopedico che raccolgono tutte le informazioni, le curiosità, le notizie utili per un amante dei felini domestici, ai libri fotografici, alle opere che si occupano di specifici temi come "il gatto nell'arte" o "la psicologia del gatto". Buona parte di essi è in italiano ma ve ne sono anche in inglese, francese, tedesco, e addirittura in giapponese (frutto di un viaggio di mio marito nel Paese del Sol Levante), in portoghese (idem dal Brasile), in ceco. Ho cominciato la raccolta una trentina d'anni fa: ogni volta che si visitava una città, o si curiosava in un mercatino, era d'obbligo cercare qualche libro per rimpinguare la collezione. Sparsasi la voce, anche gli amici talvolta riportavano dalle loro trasferte all'estero qualche rarità.
 Non posso parlare di tutti i volumi, ma ne citerò qualcuno in base a criteri assolutamente personali. Ecco ad esempio "Mi Mi le fierot", in francese ma pubblicato a Pechino nel 1979 dalle "Editions en langues étrangères" e acquistato a Parigi nel settembre 1986 (fa fede la data da me scritta sul frontespizio): storia di un gatto dipinto che decide di uscire dal quadro e di andarsene in giro vantandosi di essere il più bel gatto del mondo; la sua superbia però verrà umiliata e alla fine capirà che se è così bello è merito di chi l'ha disegnato, di chi ha prodotto i colori e la tela... insomma, una favoletta pedagogica per esaltare il lavoro collettivo, decisamente molto cinese! Un altro curioso libretto, stavolta tedesco, "Katzen Flohmarkt" raccoglie immagini dei più disparati oggetti rappresentanti gatti: statuine, portacenere, scatolette di fiammiferi, cartoline, insegne di negozi... Pubblicato a NewYork è invece "The cat made me buy it!", con moltissime illustrazioni pubblicitarie d'epoca in cui un gatto aveva il ruolo di "testimonial"  Tra i prodotti reclamizzati, sigari, saponi, calze e perfino la Coca Cola. Voglio ricordare il volume "L'univers du chat", ricco di bellissime illustrazioni, soprattutto per le circostanze singolari grazie alle quali ne entrai in possesso: si tratta del "compenso " per la traduzione dal francese da me fatta qualche anno fa del complicatissimo testamento che la zia , vissuta a Parigi per molto tempo,  di una coppia di amici, aveva lasciato. Molto più semplicemente è stato acquistato in una libreria della mia città  "Joseph e Chico",  la storia di papa Benedetto XVI raccontata da un gatto! Si tratta di un grosso soriano realmente esistito che viveva nella casa accanto alla quale Joseph Ratzinger trascorreva le vacanze quando era cardinale, e per il quale il futuro Papa pare avesse una speciale predilezione.
Se dovessi dire a quale dei libri contenuti nei cinque scaffali sono più affezionata, credo che ne sceglierei due. Uno, "Tre gattini e una civetta", era la passione di mia figlia maggiore che mi chiedeva insistentemente di leggerglielo e che un giorno riuscì a strapparne in parte una pagina, la quale fu poi riparata da me con il nastro adesivo che ancora si può vedere assieme alla scritta "Lucia ruppe, la mamma restaurò-26/3/87". L'altro, "The church mice at bay", acquistato a Londra nel 1985, è una storia deliziosa piena di humour britannico, con illustrazioni piene di particolari irresistibili  e con protagonista il gattone rosso del reverendo, alleato con i topi per rendere la vita impossibile  (riuscendo alla fine a farlo scappare) al giovane sostituto del pastore che ha portato nuove abitudini non gradite in canonica.
La mia collezione ha il pregio di  accoppiare due delle mie grandi passioni, libri e gatti appunto. Se poi mi siedo in poltrona tranquilla e rilassata a sfogliare uno di questi bei volumi con accanto Emily che fa le fusa, beh, è un momento di quasi perfetta felicità!
rosy

giovedì 8 marzo 2012

Andar per mercatini

Bazzico i mercatini dell'antiquariato (dove poi la merce in vendita non è soltanto antica ma semplicemente usata o di qualche decennio fa) fin da tempi non sospetti, quando il vintage non era ancora una moda; ci andavo con i miei genitori, mio padre alla ricerca di libri su arte e viaggi, mia madre nel vano tentativo di arginare i suoi sconsiderati acquisti, mentre io mi riempivo gli occhi degli oggetti più disparati: macinini da caffè, vecchie chiavi arrugginite, telefoni anni '50, gioielli dal gusto retrò, credenze della nonna.
Ho la fortuna di avere alcuni paesi della mia provincia che li organizzano a rotazione nelle varie domeniche di ogni mese e continuo a frequentarli soprattutto perchè apprezzo la filosofia che ci sta dietro, quella del riuso. Mi sembra del tutto privo di senso che qualcosa che non serve più o non piace a qualcuno o non trova più spazio in un ambiente debba essere buttato via, quando invece è ancora possibile utilizzarlo. Anzi secondo me l'oggetto in questione si carica del valore aggiunto di una storia sulla quale volendo è possible fantasticare, immaginando ad esempio a quale anziana signora sarà appartenuto il medaglione d'argento che ho acquistato e quale fotografia avrà custodito.
Gli articoli di cui vado a caccia sono libri e fumetti (Martin Mystère, a cui recentemente si è aggiunto anche Julia), capi di vestiario e borse, gioielli alla portata del mio budget. I miei ultimi affari sono stati una giacca e una borsetta anni '70, pagate rispettivamente 5 e 3 euro.

I prezzi a volte sono piuttosto sproporzionati o per eccesso o per difetto, capita che ti chiedano una cifra spropositata per qualcosa che vale molto meno o al contrario che, inconsapevoli del reale pregio della merce, offrano per pochi euro una vera rarità. E' il caso di un delizioso libretto del 1919 per insegnare l'inglese alle bambine francesi, con irresistibili illustrazioni d'epoca, scovato tra comunissimi tascabili moderni e venduto come questi a 1 euro. Uguale il costo di un golfino vintage, tra l'altro ancora col cartellino, probabilmente uscito dal polveroso magazzino di una merceria che ha chiuso i battenti.
Girando con pazienza e un po' di fortuna si possono portare a casa dei piccoli tesori. Se poi il prezzo ci sembra troppo alto si può sempre provare a contrattare...ma questo proprio non son capace di farlo.

martedì 6 marzo 2012

Torta macrobiotica di carote, cocco e datteri

Mia mamma ha sempre una certa diffidenza nei confronti dei miei esperimenti culinari senza zucchero: la sua lamentela "non è dolce" è diventato un tormentone che ormai dico io precedendola prima ancora che abbia assaggiato. Questa volta però non ha avuto motivo di pronunciarla perchè la mia torta è venuta dolcissima (anzi per me quasi troppo) senza un grammo di zucchero aggiunto!
La ricetta l'ho presa qui ma ovviamente l'ho modificata un po' e, modestamente, è venuta davvero una bomba:

2 cups farina integrale
1 cucchiaino di lievito
1 cucchiaino di bicarbonato
sale q.b.
una spruzzata di cannella e zenzero
punta di un cucchiaino di misto di spezie per dolci
1/2 cup di cocco grattugiato
1/2 cup di carota grattugiata (ho usato una carota)
1 cup 1/4 di succo di mela
1 cup di datteri (misurati interi col nocciolo)

Ho mescolato la farina, il cocco, il lievito e il bicarbonato, le spezie e il sale. Ho denocciolato e tagliato a pezzettini i datteri e li ho aggiunti al composto, quindi ho incorporato la carota grattugiata finemente. Infine ho ammorbidito il composto il succo di mela. Ho fatto cuocere in uno stampo da plum-cake oliato a 180° per circa 30 minuti.
La torta rimane leggermente umida per la presenza delle carote. I pezzettini rossicci che si vedono nella foto sono i datteri, quando si incontrano sotto i denti si sprigiona una dolcezza incredibile. La ricetta prevedeva anche le uvette ma sono del tutto superflue. Il trio carote-cocco-datteri si rivela assolutamente vincente!
Lucia

Suore epicuree?

Ho frequentato le elementari in un istituto di suore negli anni  '60. Su quel periodo potrei scrivere per ore ma non lo farò; voglio solo ricordare un episodio che mi è tornato alla mente poco tempo fa. Allora, come ora del resto, si facevano le recite scolastiche, alla fine dell'anno, forse anche a Natale. Erano spettacoli in cui un po' si recitava, un po' si cantava -come nei musical, o nei film di Walt Disney!-; le parti cantate erano accompagnate dal pianoforte, suonato da un'attempata signorina di nome Mariuccia. In terza la recita, di cui non rammento assolutamente la trama (cosa pretendete: sono passati quasi cinquant'anni!)  prevedeva ad un certo punto l'entrata in scena di un "coro di pasticcere viennesi" di cui anch'io facevo parte, sobriamente abbigliate in gonna a pieghe blu, camicetta bianca e un grembiulino pure bianco. Ho detto che non ricordo l'argomento della pièce ; in compenso però ho stampato in mente (misteri della memoria)  gran parte del testo della canzone che cantavamo: "Ecco vassoi d'argento /tutti ricolmi di specialità /belle e profumate/ son le tartine che portiamo qua..." Fin qui, nulla di particolare, ma arriviamo al finale: "Tra le novità che noi creiamo potrai scegliere/ e dimenticar così gli affanni e i dispiacer. /Non convien soffrir, meglio assai gioir, e della vita/coglier solo quello che può dar la felicità!"
Ora, se c'era un tasto sul quale le buone suore battevano quotidianamente, era quello del sacrificio, del fioretto, della rinuncia. Sembrava che essere felici fosse una colpa, da scontare infliggendosi qualche mortificazione, privandosi di qualche seppur lecito piacere.  Tutt'altra logica era sottesa all'esortazione cantata dalle pasticcere: un invito a cogliere solo le gioie della vita, quasi un carpe diem di oraziana memoria. Noi ignare educande ovviamente pronunciavamo quelle parole senza riflettere sul loro significato, e solo adesso a distanza di tempo mi sono fermata a meditare sulla contraddizione tra esse e quanto ci veniva inculcato quasi ossessivamente. Ma una domanda mi sorge spontanea; le suore avranno mai letto il testo di quella canzone? Ho paura di no, altrimenti con ogni probabilità avrebbero ripiegato su un altro spettacolo: magari la vita (e la morte) di S. Maria Goretti...
rosy

lunedì 5 marzo 2012

il destino di una lettrice

Qualche giorno fa, su una bancarella di un mercatino dell'antiquariato, ho visto diversi volumi della "Scala d'Oro". Per i più giovani che probabilmente non ne hanno mai sentito parlare: si tratta di una collana di volumi, circa 80, per bambini e ragazzi graduati secondo l'età, dai 6 ai 14 anni, pubblicata all'inizio degli anni '50, che comprendeva anche grandi romanzi come "I miserabili" o "Guerra e pace" adattati nella mole e nel linguaggio per lettori giovanissimi. Doveva essere, immagino, uno strumento per avvicinare, fin dalla più tenera età, alla lettura non solo di libriccini scritti per l'infanzia ma anche dei capolavori di tutti i tempi. Ora, io posseggo TUTTA la "Scala d'Oro: mio padre l'acquistò quando ero piccolissima, se non addirittura prima che nascessi, probabilmente nella speranza che anch'io, come lui e la mamma, crescessi nell'amore per i libri e per la cultura. Ho ripensato a questo fatto e mi è sembrato bello, quasi commovente, che quest'uomo non agiato (era professore di latino; mia madre era casalinga, quindi non si nuotava nell'oro!) si preoccupasse di fornire alla figlia non solo tutto ciò di cui ha bisogno un bimbo per crescere sano, ma anche quello che una recente pubblicità-progresso definisce "cibo per la mente". Date queste premesse, credo fosse quasi impossibile che io deludessi le speranze familiari: in uno dei miei primi più vividi ricordi d'infanzia sono seduta nella veranda di casa con una fetta di pane, olio e sale in una mano e un libro nell'altra, così immersa nella lettura da non sentire i ripetuti richiami della mamma. Dovevo avere circa 5 anni, ma già da un anno avevo imparato (non chiedetemi come!) a leggere.. e da allora non ho più smesso di farlo. La mia casa è piena di libri, le mie serate più che della voce spesso petulante e fastidiosa della TV sono piene di quella sommessa e discreta degli autori che di volta in volta scelgo. La vecchia Scala d'Oro ha ancora il suo posto in uno scaffale e a volte mi capita di riguardare qualche volume -anche perché hanno bellissime illustrazioni- con un pensiero di nostalgia per l'infanzia e di gratitudine per i miei genitori.
rosy

domenica 4 marzo 2012

Spring rolls

Nella giornata meno primaverile degli ultimi giorni (il sole è spuntato solo dopo le 4) la primavera l'ho messa letteralmente nel piatto con degli involtini china-style, più che altro per smaltire le sfoglie di riso acquistate tempo fa e che sembrano non finire mai.
Mi sono ispirata alle ricette già presenti su veganblog.

per 10 involtini:
1/4 di verza bianca
mezzo porro
2 carote
una manciata di funghi porcini secchi (o shiitake)
2 cm. ca. di zenzero fresco
1/3 di cucchiaino di 5 spezie cinesi 
olio di sesamo
salsa di soia
10 sfoglie di riso per involtini primavera

Reidratate nell'acqua i funghi secchi per 30 minuti. Affettare sottilmente a rondelle il porro, tritare lo zenzero fresco e mettere tutto in un wok con un cucchiaio di olio di sesamo e le spezie. Fate stufare per circa 5 minuti finchè il porro non è morbido, quindi aggiungete la verza tagliata sottilmente a striscioline, le carote grattugiate (con una grattugia a fori grossi) e i funghi tritati grossolanamente a coltello. Aggiungere salsa di soia a gusto, coprire e far cuocere circa 10-15 minuti; va benissimo anche se le verdure rimangono un po' croccanti. Ammollate in acqua fredda le sfoglie di riso per circa 1 minuto (comunque finchè si ammorbidiscono), mettete al centro un cucchiaio di ripieno, quindi ripiegatele prima sui lati e poi dal fondo arrotolandole il più strette possibili. Mettere su una teglia con carta da forno e cuocere a 180° per 10 minuti circa, fino a che non assumono una sfumatura dorata e appaiono più croccanti.

Io ho servito con del ketchup home-made a sostituzione della salsa agrodolce che danno al ristorante. Volendo al ripieno si possono aggiungere del tofu, dei germogli di soia, o ancora delle zucchine quando è stagione. Insomma, largo alla fantasia!
Forse la foto fa un po' schifo, ma io le macchina fotografica non ci capiamo per nulla purtroppo...
Lucia

sabato 3 marzo 2012

Torta ubriaca al cacao, cioccolato e vino rosso

Giusto per smentire immediatamente i miei buoni propositi di eliminare il più possibile lo zucchero dai miei dolci, oggi ho preparato una torta davvero goduriosa che è riuscita proprio bene, soffice e profumata. Ho modificato una ricetta collaudata sostituendo al liquido previsto del vino rosso dolce, in questo caso bonarda amabile dei colli piacentini. Bando alle ciance, veniamo alla ricetta:

200 gr farina (ho usato la 00, che vergogna!)
125 gr zucchero di canna equo e solidale
30 gr di cacao amaro equo e solidale
1 cucchaino di bicarbonato
sale q.b.
cannella e spezie miste per dolci q.b.
vanillina o meglio estratto di vaniglia
60 gr olio di mais
200 ml di vino rosso dolce (ho usato della bonarda amabile; nell'originale era prevista acqua fredda)
cioccolato fondente tritato o gocce di cioccolato a piacere

Unire tutti gli ingredienti secch; in un'altra ciotola mescolare i liquidi tra loro e poi unire le due miscele. Unire il cioccolato grattugiato o le gocce di cioccolato. Versare nella tortiera oliata e infornare a 180° per 25-30 minuti (al solito fare la prova stecchino). 

 La dose che ho fatto io è per una minitortina dato che siamo solo in due e questo non è proprio un dolce da mangiare la mattina; ho usato 75 gr di farina e ridotto tutto in proporzione. Per la cucina si è sprigionato un profumo paradisiaco, la cannella e le spezie aggiungono un tocco che fa molto vin brulé. Insomma da rifare!